Domenica 27 febbraio 2022 – LIVORNO
Tutti i soci vecchi e nuovi e tutti coloro che vorranno avere informazioni ed iscriversi all’Associazione Culturale e di Promozione Sociale IL MONDO DEI FARI – ETS (Ente Terzo Settore) sono invitati a partecipare all’Assemblea annuale dell’Associazione che si terrà domenica 27 febbraio 2022 alle ore 14.00 in prima convocazione e alle 15.00 in seconda convocazione, presso la sede della Compagnia Portuale di Livorno in piazza del Pamiglione (aula magna). Nel corso della riunione oltre approvare il bilancio consuntivo 2021 e preventivo 2022, parleremo delle nuove iniziative, idee, tour nei fari come da programma che viene messo in bozza e che verrà discusso e approvato nel corso della riunione.
Sarà per tutti possibile seguire la riunione anche su zoom al seguente link: https://us02web.zoom.us/j/88034993056?pwd=eDRKdzZJdkxZWk5qUnJoczVkV0VGQT09
ID riunione: 880 3499 3056
Passcode: 102356
PROGRAMMA:
ore 10.30 appuntamento in Via Edda Fagni Ingresso Cantieri Azimut Benetti
ore 11.00 inizio visita Faro di Livorno
ore 12.00 Pranzo al Sacco al faro (sarà possibile ordinare anche delivery da farsi recapitare al faro) bibite e caffè offerti dall’Associazione
ore 14.30 trasferimento sala riunione per Assemblea annuale Soci presso Sede Compagnia Portuali Piazza del Padiglione – Parcheggio disponibile nelle vicinanze.
ore 15.00 inizio Assemblea (Argomenti: Approvazione Bilanci, programma attività 2022, aggiornamento incarichi associativi, Progetti e convenzioni, Nomina Soci Emeriti, presentazione nuovo sito WEB.
ore 17.30 termine assemblea
A conclusione dell’attività 2021 vorremmo trovarci a Sanremo il giorno 18 dicembre per scambiarci gli auguri di Natale e parlare insieme delle attività future.
Il programma sarà il seguente:
Domenica 14 novembre in occasione della mezza Maratona di Livorno apriremo al pubblico il faro di Livorno. Tutti i Soci Livornesi e non solo sono chiamati a dare il loro supporto di volontariato per consentire che l’evento avvenga nel pieno rispetto delle norme covid e per dimostrare alle istituzioni Livornesi che siamo in grado di gestire queste visite in piena autonomia.
Al termine delle visite aperitivo e visita al tramonto del faro per i soli soci offerto dall’Associazione.
La visita del faro avrà la durata di 30 minuti e sarà obbligatorio essere in possesso del Green Pass, indossare la mascherina e mantenere la distanza di almeno un metro tra diversi gruppi familiari. La visita richiede la necessità di salire 297 gradini e per la presenza di barriere architettoniche non è possibile per portatori di handicap motori. La visita è anche fortemente sconsigliata per personale con problemi di respirazione, cuore o in stato interessante. Non sono ammessi all’interno animali.
Questa ricerca oltre a individuare i nomi e le storie dei faristi che nel tempo hanno prestato servizio al faro del Tino con le loro famiglie, ha ricostruito la storia della prima elettrificazione del Faro che fu sperimentata per la prima volta in Italia tra il 1885 e il 1912.
Non molti sanno che il progettista del Genio Civile fu il Commendator Parodi che pensò di utilizzare macchine termiche ad aria calda alimentate a carbone (purtroppo non si poterono utilizzare macchine a vapore per la difficoltà di approvvigionare acqua dolce che non è presente sull’isola) che servivano a mettere in moto due dinamo a corrente alternata che potevano funzionare separatamente o insieme, in modo da ottenere correnti variabili da 55 a 200 ampere. In quest’ultimo regime si aveva un potere luminoso di circa 1600000 carcels (unità di misura dell’intensità della luce pari a = 1,5584×107 Candele).
La luce del faro di San Venerio era visibile da oltre 75 miglia di distanza. Tuttavia i pescatori locali si lamentarono fin da subito per i potenti bagliori che, a 6-8 miglia dalla costa, facevano assumere alle onde le sembianze di pericolosi frangenti …inoltre, l’approvvigionamento di carbone quasi giornaliero, che doveva essere trasportato dall’ Arsenale fin sull’isola con piccole barche a remi, la fatica che ne derivava oltre al tempo necessario per trasportarlo e stivarlo non consentiva ai faristi di potersi adoperare anche per il corretto funzionamento del faro e assicurare allo stesso tempo il necessario sostentamento alle famiglie. Pertanto, nel 1912, si decise di riconvertire il faro a vapori di petrolio, poi ad acetilene e, solo in tempi più recenti, si poté procedere alla sua definitiva riconversione ad energia elettrica assicurata da gruppi elettrogeni e da un cavo sottomarino che dalla Palmaria porta, ancora oggi, l’energia elettrica di rete a tutta l’isola del Tino. Ma di questo e molto altro vi racconteranno i soci Felicetta e Vittorio e i faristi che al tino hanno prestato servizio.
IL FARO DI LA CORUNA, GALIZIA, SPAGNA
LE SUE LEGGENDE E LA SUA STORIA
di Annamaria “Lilla” Mariotti
I fari lungo le coste di tutto il mondo sono tantissimi, un numero infinito e, anche se la loro utilità viene oggi messa in discussione, per secoli hanno aiutato i naviganti ad evitare i pericoli rappresentati da scogli affioranti e secche di sabbia, portandoli sani e salvi alla meta. Tutti questi fari hanno una loro storia, sono più o meno antichi, ma ce n’è uno in particolare, la Torre di Ercole a La Coruña, in Spagna, che ha da raccontare una delle storie più interessanti che si possano immaginare.
Questo faro è il più antico esistente al mondo ancora in funzione e in una inimmaginabile contraddizione temporale, un moderno sistema di illuminazione elettrico è in funzione al di sopra di pietre poste sul luogo dai romani. Il faro è diventato il simbolo stesso della città di La Coruña e chiunque lo guardi non può non rendersi conto dell’aura magica che lo circonda.
Molte sono le leggende nate intorno alla costruzione del faro, ma qui voglio raccontarne tre, quelle che ci riportano alla notte dei tempi, alla mitologia, alle guerre tra uomini e Dei e al valore di questo ultimi e ai Celti, popolo misterioso che un tempo popolò queste terre.
Una prima leggenda racconta che Euristeo, Re di Micene, aveva imposto ad Ercole, suo fratello, le famose dodici fatiche, la decima delle quali consisteva nel rubare i buoi di Gerione, Re di Spagna, perché quest’uomo cattivo nutriva gli animali con carne umana. Gerione era un essere fantastico, aveva tre corpi e tre teste, ma una sola anima, e possedeva un grosso gregge di buoi custodito da Orto, un cane a due teste. Ercole piombò nel bel mezzo del prato dove il gregge pascolava, uccise Orto, il cane mostruoso, e radunò gli animali per far ritorno a Micene.
Non appena Gerione venne a sapere quello che Ercole aveva fatto lo inseguì verso le terre di Nord Ovest per recuperare il suo gregge. I due si incontrarono su una collina vicino al mare e lì combatterono furiosamente per tre giorni, finché Gerione cadde ferito a morte. Ercole tagliò le teste di Gerione e seppellì il corpo nello stesso punto in cui era avvenuto lo scontro. Il vincitore, per mantenere il ricordo della battaglia, decise di fondare in quel posto una città, chiamò gente per abitarla e costruì una grande torre, sul luogo della sepoltura di Gerione, che doveva servire per controllare la costa e difenderla dai nemici.
Tra le prime persone accorse per abitare nella nuova città c’era una donna di nome Crunna, che Ercole sposò e, in suo onore, diede alla città il nome della moglie.
Un’altra leggenda narra che dopo la costruzione delle Colonne d’Ercole, fine del Mare Mediterraneo e inizio del mare tenebroso e sconosciuto che tutti temevano, gli abitanti di quella che una volta di chiamava Asperia, la Spagna odierna, venuti a conoscenza dell’abilità di Ercole nel combattere i tiranni e le ingiustizie, gli chiesero di aiutarli a liberarsi dalla tirannia di Gerione Signore delle terre di Asperia.
Volendo accontentare quella brava gente Ercole sfidò Gerione in una battaglia a due, senza ascoltare i consigli dei suoi amici che gli dicevano di non andare da solo a quell’incontro. Accettata la sfida, fu deciso che lo scontro sarebbe avvenuto nella terra di Galizia dove i due combatterono per tre giorni. Il quarto giorno Ercole uccise Gerione, tagliò la sua testa, costruì una torre in quel luogo a ricordo dello scontro e fondò una città. La gente arrivò nella nuova città da molti posti diversi ed Ercole diede a quel posto il nome di una donna giunta con gli altri : Crunna.
Queste due storie hanno molto in comune, ma ce n’è una terza, che riguarda un’epoca più recente e meno fantastica, sia pure sempre leggendaria.
Secondo il “Libro delle Invasioni”, una raccolta irlandese del XII secolo di fatti epici, il capo celtico Lord Breogan, fratello di Brath e padre di Lord Ith, fondò la città di Brigantium, in Galizia, e di fronte ad essa costruì quella che veniva chiamata “La Torre di Breogan” di cui si diceva che fosse “una casa deliziosa e confortevole, oltre ad essere un importante punto di avvistamento”.
La leggenda racconta che Ith, il figlio di Breogan, guardando dalla torre vide all’orizzonte una costa sconosciuta e chiese e ottenne da suo padre il permesso di partire con una spedizione verso quella terra, che era l’Irlanda. ma, appena arrivato, Ith fu ucciso dagli abitanti ed il suo corpo fu rimandato a casa in segno di buona volontà, ma Breogan, per vendetta, invase l’Irlanda.
Queste sono le suggestive leggende legate al faro di La Coruña, e che ancora oggi si raccontano, ma in realtà la torre originaria fu costruita al tempo dell’Imperatore Traiano, alla fine del Imo secolo D.C., da Caio Servio Lupo, un architetto proveniente da Aemium, una città allora situata vicino a quella che oggi è Coimbra, in Portogallo e fu dedicata al Dio Marte, con l’intento di usarla sia come faro che come torre di avvistamento per proteggere il vicino porto di Brigantium.
Alla base della torre è stata rinvenuta una pietra con la seguente iscrizione :
MARTI / AUG. SACR. / C. SEVIVS LUPUS
ARCHITECTUS / AEMINIENSIS
LUSITANUS EX.VO
Che tradotta significa :
” Consacrato a Marte. Gaio Sevio Lupo, architetto di Aemium, in Lusitania, a compimento di una promessa”
La torre fu costruita su una pianta quadrata, con i lati di 18 metri ed un’altezza di 36 metri, aveva tre piani a su ogni piano si affacciavano quattro stanze comunicanti tra loro. In alto terminava con un pinnacolo cilindrico di circa 4 metri ed intorno ad esso erano collocati i contenitori per il fuoco. La scala si trovava all’esterno e saliva tutto intorno alla torre.
La storia e le vicissitudini di questo faro si snodano attraverso i secoli, le prime tracce si trovano in un trattato di Paolo Orosio scritto tra il 415 e il 417 nel quale, per la prima volta, la torre viene chiamata “Faro”. L’uso delle torre per questo scopo venne in seguito associato alla città ed all’intera regione, tanto che nel 572 venne dato il nome di “Faro” ad una delle divisioni territoriali donata al Vescovato di Iria e nell’830 la regione viene chiamata “Contea del Faro” . Anche quando la popolazione costiera fu costretta a fuggire all’interno a seguito dell’invasione Normanna, a partire dall’846, la città fondata dai rifugiati fu chiamata “Burgo de Faro”. Nell’870 San Sebastiano, nelle sua cronache, racconta che i Normanni arrivarono “fino ad un posto conosciuto come Faro di Brigantium”. Nel 915 la proprietà della città di “Farum Brigantium” passò all’arcivescovado di Santiago di Compostela. Negli anni seguenti i territori limitrofi vengono sempre identificati con il nome del Faro mentre passano di proprietà di vari monasteri e chiese, finché nel 991 il Re Bermudo II dona “la Contea del Faro” alla Chiesa di Santiago. Durante il Medio Evo un Re, Alfonso V, conferma la donazione della Contea alla chiesa, con l’esclusione della torre, che viene però contesa tra vari nobili, a causa della sua posizione e della solidità della sua costruzione, infatti veniva usata anche come fortezza. Passò di nuovo nelle mani della corona, e ancora all’arcivescovado di Santiago di Compostela, ma tutti questi cambiamenti portarono solamente alla rovina della torre che, a causa della mancanza di un’adeguata manutenzione, cominciava ad andare in rovina.
Alla fine del XII Secolo la città di Brigantium prende il nome di “Las Cruña” (dal latino “ad columnam” cioè vicino alle colonne) e nel secolo seguente divenne la città principale della regione. Intanto la torre continuava a decadere, la rampa delle scale esterne fu demolita e le sue pietre vennero usate per costruire una fortezza all’interno della città. A partire dal XVI Secolo la torre divenne proprietà della città, ma il fatto che mancava la scala per raggiungere i piani superiori la rese inservibile e così la sua rovina aumentò e nel 1589, durante l’assedio degli inglesi, fu definita “un nido per uccelli”. Fu solo nel 1682 che furono iniziati dei lavori per riattivarla come faro e per accedere alla cima furono creati dei passaggi nelle volte delle stanze, fu costruita una scala interna e in cima, sul lato Nord, furono costruite due piccole torri per contenere due lanterne. Le spese per la riparazione, la riattivazione e la manutenzione del faro furono pagate per 10 anni dai Consoli di Inghilterra, Olanda e Fiandra che erano interessati alla sicurezza per la navigazione commerciale tra i loro paesi. In seguito questo onere passò alle Autorità Cittadine, ma ancora una volta la torre venne trascurata e questo provocò l’inizio di un altro declino con la caduta di una delle piccole torri e danni alla scala interna.
Dobbiamo arrivare al 1785, quando la torre passò nella mani del Reale Consolato Marittimo della Galizia, per vedere rinascere questo monumento. In quello stesso anno fu decisa la sua ricostruzione e l’incarico fu affidato a Eustaqui Gianini, un ufficiale di marina ed ingegnere. Il vecchio nucleo della torre fu rivestito con pietre di granito dello spessore di 60 cm., sulla cima fu costruita una volta ottagonale e all’interno una nuova scala, e nello stesso tempo furono effettuati altri lavori di ristrutturazione generale. I lavori finirono nel 1791 e con questo intervento il Faro prese l’aspetto con cui oggi lo conosciamo. La lanterna aveva sette riflettori alimentati ad olio e l’eclisse era ottenuta da lastre d’acciaio mosse da un meccanismo ad orologeria.
A partire dal 1833 molti sono stati i cambiamenti che la lanterna del Faro ha subito e gli avvenimenti che lo hanno accompagnato. Una cosa interessante è che tra il 1849 ed il 1854 fu istituita nel Faro una scuola per Guardiani del Faro che andavano lì per imparare il mestiere. Nel 1921 arrivò l’elettricità e furono quindi abbandonati i vecchi sistemi di illuminazione e nel 1956 sul lato Sud Ovest della base fu costruito un nuovo quartiere per il Guardiano. Infine nel 1974 fu installato il corno da nebbia e nel 1977 il radiofaro.
Oggi la Torre di Ercole è diventata il simbolo della città di La Coruña ed è comune identificare l’una con l’altra. Il Faro per secoli è apparso sugli stemmi della città e attraverso queste rappresentazioni si possono anche vedere i vari cambiamenti a cui la torre è stata sottoposta. Oggi essa continua la sua funzione di Faro, la sua caratteristica sono quattro lampi di luce bianca con un periodo di 20 secondi che possono essere visti ad una distanza di 23 miglia. Ha un radiofaro ed il segnale per la nebbia. La sua posizione geografica è : 43° 23′ 9″ Nord, 8° 24′ 24″ Ovest e la sua altezza sul livello del mare è di 57 metri.
La torre è aperta al pubblico fino ai piani superiori, l’unica stanza non visitabile è quella della lanterna. Durante la salita su possono vedere i resti dell’antica costruzione romana ed i segni dei seguenti rimaneggiamenti. Alla base della torre si trova una piccola costruzione che protegge la pietra con l’iscrizione originale latina di cui si è parlato all’inizio.
Tra storia e leggenda si snodano le vicissitudini di questa torre costruita dai Romani per proteggere un porto importante per i loro commerci, un faro che ha vissuto momenti di declino e momenti di gloria, ma che, saldo come una roccia, ha attraversato i secoli, le bufere, gli imperi e gli imperatori. Ha subito molti cambiamenti, ma è rimasto lì, proteso verso l’Oceano Atlantico, come una testimonianza della lunga storia di questi monumenti luminosi che rischiano di andare perduti ancora una volta per l’incuria dell’uomo.
IL FARO DI BROTHER ISLANDS
MAR ROSSO – EGITTO
di Annamaria @Lilla@ Mariotti
Latitudine : 23° 39’ Nord Longitudine : 36° 09’ Est
L’Egitto evoca non solo la storia di Faraoni, ma anche il ricordo del primo, grande faro conosciuto della storia, una delle sette meraviglie del mondo. Costruito sotto i regni di Tolomeo I e Tolomeo II, i faraoni greci, sull’isolotto di Pharos, di fronte ad Alessandria, intorno al 300 A.C. Il faro di Alessandria avrebbe in seguito dato il nome a tutte le strutture costruite in riva al mare per guidare i naviganti. Il Mar Rosso, oggi meta di vacanze per gli amanti del diving, ricorda una storia ancora più antica, il mitico passaggio di Mosé a capo del suo popolo durante la fuga dall’Egitto.
A circa 60 chilometri al largo della costa Egiziana, a Sud Est di Hurghada, dove il deserto orientale di getta nel Mar Rosso, si trovano due minuscole isole, chiamate in arabo “El Akhawain” e in inglese “Brothers” , cioè fratelli, che hanno in realtà ben poco in comune se non la vicinanza una all’altra. La più grande, “Big Brother”, ha un profilo piatto e allungato, è lunga circa 400 metri e larga 40, mentre la più piccola, mezzo miglio più a Sud, ha una forma leggermente circolare e un perimetro che non supera i 100 metri.
Entrambe le isole sono circondate da una barriera corallina e sono prive di vegetazione e di spiagge. Queste due isole non sono altro che due piattaforme di origine corallina che si elevano da un abisso di oltre 500 metri e si innalzano sul mare per non più di 10 metri. Dopo l’apertura del Canale di Suez il 17 Novembre 1869 molte di navi cominciarono a solcare questo tratto di mare e molti furono i naufragi, come testimoniano i relitti che vi si trovano. Questa era la via più breve per gli inglesi per raggiungere le loro colonie in India e furono proprio gli inglesi , che a quel tempo contavano tra le loro colonie anche la costa orientale dell’Egitto, a volere, nel decennio 1880-1890, una rete di fari che consentisse una navigazione sicura in quelle acque che stavano diventando tra le più navigate del mondo.
Uno di questi fari venne costruito sulla “Big Brother” utilizzando come mano
d’opera prigionieri egiziani che ricavano la pietra dall’isola stessa, tagliando blocchi di 1,30 metri di base per 65 centimetri di altezza. Il faro fu completato nel 1882 ed era alto 36 metri. L’impianto di illuminazione funzionava con una lampada a kerosene alimentata da una pompa manovrata a mano che doveva essere alimentata ogni 4 ore.
Le lenti di Fresnel della lanterna amplificavano la luce portando la visibilità a 17 miglia. Il sistema ottico era stato realizzato dalla ditta Chance Brothers di Birmingham, pesava più di una tonnellata e funzionava grazie ad un complesso sistema di contrappesi che salivano e scendevano all’interno della torre. Il faro era custodito da cinque persone che vivevano sull’isola, un capo guardiano e i suoi quattro assistenti, che avevano il compito di accendere il faro al tramonto, alimentalo ogni 4 ore e spegnerlo all’alba. Questi uomini vivevano in condizioni a dir poco disagiate, non c’era corrente elettrica e i contatti con la terraferma avvenivano tramite un vecchio trasmettitore Morse alimentato a batteria, gli approvvigionamenti erano rari e poveri, non esiste nessun tipo di approdo su quel piccolo scoglio e l’unico mezzo di sostentamento era la pesca. Gli uomini facevano turni di tre mesi sull’isola e uno a casa, oppure di nove mesi al faro e tre a casa.
Nel 1994 il faro è stato elettrificato e automatizzato, la vecchia lente è stata sostituita da una lampada che lancia 4 lampi bianchi ogni 16 secondi con una portata di 17 miglia , così anche gli uomini hanno abbandonato l’isola, dove tutto è stato lasciato com’era, e le vecchie case dei guardiani, costruite anch’esse in pietra locale, stanno andando in rovina e sono l’unica testimonianza di un’epoca passata, un’epoca di lavoro e di sacrificio.
IL FARO DI MARETTIMO E IL SUO GUARDIANO
Di Annamaria “Lilla” Mariotti
Io ho scritto questo racconto diverso tempo fa, quando ebbi il piacere e il privilegio di poter intervistare Bonaventura Venza, allora già in pensione, che era stato per molti anni il guardiano del faro di Punta Libeccio a Marettimo.
Ora che Ventura, come amava essere chiamato, è andato ad accendere il fari lassù tra gli angeli, vorrei che questo diventasse un tributo particolare a quell’uomo eccezionale che era.
Bonaventura Venza, o meglio, Ventura, come amava essere chiamato, l’uomo che nacque due volte. La prima fu a Marettimo, una delle Isole Egadi al largo della Sicilia, il 28 Giugno 1934, la seconda 13 anni dopo quando, in seguito ad un qualche incidente di cui non ama parlare, lui morì, andò di là, come dice Ventura, e ritornò in vita dopo aver visto tante cose, molto toccanti, che segnarono per sempre la sua vita. Non vuole dire cosa ha visto, è un suo segreto e non vuole dividerlo con altri, bisogna credergli sulla parola. Forse è per questo che Ventura è un uomo così sereno, così pacato, così gentile. Può sembrare un racconto, strano, fantastico, ma chi conosce Ventura sa che le cose stanno proprio così, come lui le racconta.
La sua vita si svolge come quella di tanti ragazzi nati e cresciuti su un’isola e quando compie 18 anni la cosa più logica da fare è quella di entrare in marina, cosa che fa con tutto l’entusiasmo della sua età e rimane in marina per alcuni anni, ma con il tempo la salute lo tradisce. Il mare, si sa, è un elemento meraviglioso, ma cela dei pericoli e per Ventura questo pericolo si manifesta come una grave forma di reumatismi che gli impedisce di continuare la sua carriera. E’ il 1968 e Bonaventura è ancora giovane, ma ottiene il congedo per invalidità mentre si trova a Venezia. Ora tutto quello che lo aspetta è una pensione e il diritto ad un posto statale che gli consenta di vivere decorosamente, non certo una grande prospettiva. Qualche volta il destino riserva delle sorprese, non ci sono molti posti statali disponibili, Ventura deve accontentarsi di un posto di Farista, e nello stesso anno viene assegnato proprio al Faro di Punta Libeccio, nella sua Marettimo e Ventura torna a casa.
Marettimo è una delle isole Egadi, insieme a Levanzo e Favignana. Queste tre isole, quasi tre sorelle, si trovano al largo della costa occidentale della Sicilia e Marettimo è un’isola particolare, una montagna in mezzo al mare, la più lontana dalla costa della Sicilia, un’isola quieta e tranquilla, dove si sentono solo lo sciabordio delle onde che si infrangono sugli scogli, il sibilo del vento e le grida dei gabbiani. Qualcuno ha detto : “Trovata Marettimo, ritrovi te stesso” e chi c’è stato giura che è vero.
Ventura, che nel frattempo si è sposato, va a vivere dentro il faro con la moglie e un altro farista, suo sottoposto, anch’egli con la famiglia e subito comprende che quella è la sua vita, che quello è il posto più bello del mondo
Il Faro si trova sulla costa Sud dell’isola, sulla Punta che ha dato il nome alla costruzione, su una roccia che si eleva a 24 sul livello del mare, la torre è alta 50 metri, il che porta l’altezza totale della lanterna a 74 metri, è stato costruito nel 1860 in pietra con una torre ottagonale, ed è tutto bianco con una striscia nera al centro del caseggiato su cui spicca la scritta “Punta Libeccio”. Le sue Lenti di Fresnel di prima classe, di fabbricazione svedese ed installate nel 1955, ne fanno il secondo faro d’Italia per importanza dopo la Lanterna di Genova. Il Faro ha una portata luminosa di 36 miglia, con due serie di lampi e due eclissi per un periodo di 15 secondi. Questo faro ha un’altra caratteristica : la sua luce arriva quasi a baciarsi con quella del faro di Capo Bono in Tunisia che è proprio di fronte a lui.
Il tempo passa e Ventura vive in simbiosi con il suo Faro, il suo lavoro comincia la sera, quando cala il sole e lui provvede all’accensione della lanterna, poi va a dormire tranquillo, perché se qualcosa non va un segnale di allarme lo avverte e lui ha il tempo di intervenire. Poi, di giorno, ci sono tante altre cose da fare : pulire i vetri, lucidare gli ottoni, eseguire piccole riparazioni e lui fa questo ed altro, perché non c’è lavoro che Ventura non sappia fare. Quella è la sua casa e Ventura ci vive felice, immerso nella natura, di fronte alla montagna di cui impara a conoscere ogni minimo particolare.
Tutto questo dura per 18 anni, poi il Faro viene automatizzato e la presenza costante di un Farista non è più necessaria, così lui e la moglie si trasferiscono in paese, a Marettimo, a 9 chilometri dal Faro, e ogni due giorni, su una campagnola, Ventura affronta la strada dissestata che attraversa la montagna e lo porta a Punta Libeccio. Questa strada è così pericolosa che ogni volta lui saluta la moglie come se fosse l’ultima volta che la vede, le curve sono così strette che spesso la campagnola si trova con una ruota sul precipizio, ma Ventura continua il suo lavoro con tenacia ed ogni volta torna a casa. Niente di male poteva accadergli vicino al “suo” faro.
Un faro indomito, destinato a durare, perché già durante l’ultimo conflitto mondiale aveva corso un bel rischio. Al tempo dello sbarco degli americani in Sicilia era stato dato l’ordine dai militari di ostacolarli in ogni modo, facendo saltare postazioni strategiche nei porti siciliani, e il faro di Marittimo era considerato di grandissima importanza per la navigazione, ma anche troppo utile per aiutare quello che allora era il nemico, così che non venne dato semplicemente l’ordine di oscurarlo, ma addirittura di farlo saltare. Fu un Nostromo della Capitaneria di porto di Trapani, Enrico Mario Aristogitone Palumbo Grandinetti, che era stato trasferito a Marettimo dove il faro di Punta Libeccio era di vitale importanza per i naviganti, che, come racconta con orgoglio la figlia, coraggiosamente finse di obbedire agli ordini, ma in realtà fece saltare un ordigno nelle vicinanze del faro, salvandolo dalla rovina.
Si racconta spesso che nei fari ci siano delle “presenze” misteriose, forse perché sono così isolati e, se capita di trovarcisi durante una tempesta, solo il sibilo del vento che soffia intorno alla torre o che si insinua lungo la scala a chiocciola può far venire i brividi ai più coraggiosi. Ventura racconta che nel “suo” Faro si sono avute molte manifestazioni di queste “presenze”, soprattutto perché durante la Seconda Guerra Mondiale lo stretto di Sicilia è stato testimone di alcune delle più terribili battaglie navali, molti mezzi sono affondati e molti marinai sono annegati, così sugli scogli di Marettimo non c’era giorno che non si trovasse il corpo di qualche marinaio perito in questi scontri.
Chi va per mare e chi vive vicino al mare sa che chi in mare muore non ha pace finché la famiglia non fa dire una messa per placare la sua anima, ma spesso quei poveri corpi non avevano un nome, e allora chi avvisare ? Gli isolani davano pietosa sepoltura a quelle povere creature, ma su molte lapidi non poterono mettere altro che una scritta “Ignoto”. Così in paese cominciarono a verificarsi strani casi, qualcuno incontrava di notte, per la strada, un giovane che, con aria sperduta, chiedeva di avvisare una famiglia lontana perché potesse dire una messa per lui, addirittura capitò che qualcuno si trovò uno di questi giovani alla porta, ma non tutti furono accontentati. Dopo un po’ questi fenomeni cessarono e pare che con il tempo quelle povere anime che non avevano trovato la pace dell’anima avessero trovato rifugio nel Faro. Ventura li sentiva, ne percepiva la presenza con strani segnali : finestre che si spalancavano quando non c’era una alito di vento, porte che sbattevano, rumori su e giù per le scale. Quando questo succedeva Ventura, al momento di apparecchiare la tavola, metteva un piatto ed una sedia in più e i fenomeni sparivano come per incanto. Se dimenticava questo rituale, per tutta la notte si sentiva il rumore di sassi lanciati contro le finestre, ma Ventura non ha mai avuto paura, per lui erano “presenze” amichevoli con le quali ha convissuto tranquillamente.
Ventura è anche un uomo dal cuore grande. Nel 1982 un amico medico lo ha portato con sé in Uganda dove dovevano costruire un ospedale. Sapeva che Ventura era un aiuto prezioso e infatti lui si è dedicato a questa impresa per un mese, facendo mille cose e prestando la sua opera senza chiedere niente in cambio, solo la gioia di essere stato utile. Ma questo e stata anche fonte di una delle più grandi delusioni della sua vita. Nel Febbraio del 2002 Ventura è tornato in Africa, in Uganda, per rivedere il suo ospedale e lo ha trovato trasformato in caserma, lui non dice niente, volta le spalle e se ne và. Cosa c’era da dire ? Tanto lavoro, tanta dedizione per cosa ?
Poi arriva il giorno della pensione e nel 1999 Ventura deve lasciare il suo Faro, deve abbandonare per sempre il suo amico. Lui dice che andandosene ha portato via con se l’anima del Faro e questo è vero. Questa antica costruzione, che nel tempo è stata spesso ristrutturata, comincia a cadere a pezzi, non viene più fatto alcun tipo di manutenzione e certamente non è più lo stesso faro che Ventura ha lasciato quando è andato via. .
Poi c’è una voce che comincia a circolare per Marettimo : il Faro è in vendita, non sembra una voce strana, gli immobili del Demanio possono essere messi in vendita, compresi i fari, e la gente comincia ad accorrere, a chiedere se è vero, ad offrirsi di comprarlo per riportarlo in vita, forse come abitazione privata, forse come albergo, tanto la gente è attratta dai Fari che qualcuno vorrebbe aggiudicarsi quello di Punta Libeccio. Ma la Zona Fari di Messina, da cui dipende il Faro di Marettimo smentisce, non è vero niente, il Faro non è in vendita. Questo è un mistero che per ora resterà tale
Intanto Ventura si gode la sua pensione, vive la sua isola e dipinge, perché questa è la sua passione più grande e poi, ogni anno, vola in California, a trovare i suoi parenti. Quando gli viene chiesto che fine faranno i fari, scuote la testa, dice che i fari saranno abbandonati, la figura del Farista sparirà, quest’uomo romantico e coraggioso sa di essere stato uno degli ultimi custodi rimasti perché si dice che la Marina non rimpiazzerà quelli che vanno in pensione, che non ci saranno più concorsi, anche se c’è molta richiesta da parte di tanti giovani per intraprendere questo mestiere.
Così Ventura, anche nella sua casa di Marettimo, rimane “Il Guardiano del faro” e lo rimarrà per sempre.
IL FARO DI CAPO SANDALO, ISOLA DI SAN PIETRO, SARDEGNA
UN UOMO E LA SUA LANTERNA
di Annamaria “Lilla” Mariotti”
L’Isola di San Pietro si trova vicino alla costa Sud Occidentale della Sardegna ed è meglio conosciuta semplicemente come “Carloforte” dal nome della sua unica città. E’ una piccola isola, la strada principale che l’attraversa da Nord a Sud è lunga 12 Km., eppure è un piccolo mondo a sé; i suoi abitanti parlano un arcaico dialetto genovese perché discendono da quei pescatori di corallo originari di Pegli a cui l’isola fu donata dal Re Carlo Emanuele III di Savoia nel 1738, dopo averli liberati dalla schiavitù di Tabarka.
La costa Est dell’isola è delimitata da bianche spiagge sabbiose, mentre la costa Ovest è un continuo susseguirsi di scogliere rocciose ed è su una di queste rocce dominanti il mare che si trova il Faro di Capo Sandalo.
Bruno Colaci, il guardiano del faro è un uomo di 58 anni, cordiale e austero nello stesso tempo, un moderno eremita, uno di quegli uomini che possono ancora condurre una vita silenziosa ed appartata in un’epoca in cui la fretta regna sovrana.
Salendo i 124 scalini delle torre per arrivare alla lanterna, Bruno racconta la storia della sua vita e le situazioni che lo hanno portato a diventare guardiano del faro. E’ entrato per la prima volta in un faro all’età di quattro anni quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, suo padre, che era stato in Marina, aveva ottenuto il suo primo incarico come guardiano di faro nel 1945 e da bambino Bruno ha viaggiato lungo le coste italiane e ha vissuto nei diversi fari a cui suo padre veniva di volta in volta assegnato. Alcuni di questi fari si trovavano sulla terraferma mentre altri erano situati su piccole, lontane isole dove, egli ricorda, qualche volta, durante le tempeste, avevano dovuto aspettare anche 15 giorni prima di poter avere aiuto e cibo. Mentre viveva in alcuni fari sulla terraferma si era trovato a dover camminare anche cinque o sei chilometri per poter andare a scuola.
Quando per Bruno è arrivato il momento di entrare nel mondo del lavoro, egli pensò che sarebbe stato bello trovare qualcosa di diverso da quello che faceva suo padre, ma la vita nei fari ormai gli era entrata nel sangue e, apparentemente, era nel suo destino per cui, dopo un concorso, accettò un lavoro di “farista”, come vengono ora chiamati i guardiani, e, dopo essere stato in un certo numero di fari, nel 1972 è approdato al Faro di Capo Sandalo e da allora, salvo una breve parentesi alla “Lanterna di Genova”, è ancora lì.
Bruno è particolarmente fiero della sua lanterna e mostra con orgoglio le lucidissime lenti di Fresnel. Benché il faro sia stato costruito nel 1864 e mostri i segni del tempo si può facilmente vedere che lui ama il suo faro e lo tratta quasi come se fosse uno dei suoi figli.
Quando gli chiedo come è la vita in questo solitario angolo del mondo, su questa roccia ventosa e isolata, Bruno risponde che lui è felice qui, in questo piccolo paradiso. Bruno parla lentamente, poche parole, poi un lungo silenzio, parole intermittenti come la luce che scaturisce dalle lenti della torre. Lui dice che si diventa così vivendo in un faro, non si conosce la fretta.
Bruno ha una famiglia che ama profondamente e che vive nella vicina città di Carloforte. I suoi figli devono andare a scuola e lui vuole che conducano una vita più confortevole di quella che ha condotto lui da bambino, ma lui dice che non si sente solo. Va a trovare la sua famiglia ogni volta che può e ogni estate la moglie ed i figli lo raggiungono al faro.
Bruno mostra l’antico meccanismo rotante che, prima che l’elettricità raggiungesse il faro nel 1980, doveva essere manovrato a mano ogni quattro ore, ma ora il faro è automatizzato e richiede molto meno lavoro di una volta, eppure Bruno sale la lunga scala ogni giorno e pulisce e lucida ogni cosa nella stanza della lanterna, da dove gode la bellissima vista del mare, delle rocce e della natura.
Improvvisamente si ferma e mi mostra un volo di falchi, sono i “falchi della regina”, ormai rarissimi, che nidificano nelle vicinanze del faro.
Bruno dice che trovarsi nella stanza della lanterna è come passare ogni giorno in cima al mondo. Quando dice questo io posso capire come si sente, perché io mi sento come se avessi scalato non solo i 124 scalini, ma la montagna più alta del mondo !!
Quando ci siamo incontrati qualche anno dopo, quando lui era già in pensione, durane la presentazione dei miei libri a Carloforte ho regalato a Bruno Colaci una copia del mio libro FARI con una dedca per lui
L’EVOLUZIONE DEI FARI DALLE ORIGINI AL REGNO D’ITALIA
di Annamaria “Lilla” Mariotti
Estratto da una pubblicazione commisionata dall’Agenzia del Demanio a Lilla Mariotti
e pubblicata dal Poligrafico e Zecca dello Stato
per la distribuzione agli intervenuti a un convegno sui fari organizato dal Demanio nel 2007
SECONDA PARTE
………… Si trattava di lenti molto pesanti, che funzionavano appoggiate su un bagno di mercurio ed azionate dal sistema ad orologeria già in uso. Il mercurio venne in seguito abbandonato a causa della sia tossicità, le lenti furono ridimensionate, rese più leggere e maneggevoli, e, con il tempo, si è arrivati al movimento su cuscinetti a sfere azionato da motori elettrici. Le lenti di Fresnel si trovano ancora oggi in tutti i fari del mondo.
Nonostante questa innovazione restava sempre il problema del combustibile. I fari funzionavano adesso ad olio, che però era costoso e necessitava di un continuo controllo. Nella prima metà del 1800 si passò al gas ricavato dal carbone e nei fari a terra questo combustibile funzionava abbastanza bene. Nel 1859, negli Stati Uniti, venne trivellato il primo pozzo di petrolio e questo cambiò il sistema di illuminazione dei fari che cominciarono a funzionare con oli estratti dal petrolio, soprattutto a base di paraffina che, abbinati alla lampada di Argan, dettero ottimi risultati. Nel 1885 l’austriaco Carl Auer Welsbach (1858- 1929) inventò un prototipo di lampadina : si trattava di una reticella di seta ricoperta di metallo alimentata da una miscela di gas di carbone che produceva una fiamma molto luminosa. Nel 1892 la scoperta dell’acetilene, un composto chimico di idrogeno e
carbone, anche se andava trattato con una certa precauzione, dette una svolta all’illuminazione dei fari, rendendola molto luminosa e permettendo di illuminare anche i segnalamenti in mezzo al mare. Tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 cominciò gradualmente l’elettrificazione dei fari, che fu completata solo molti anni dopo. Dove non era possibile collegare i fari ad una rete elettrica, come in quelli in alto mare, l’elettrificazione avvenne tramite generatori elettrici a motore o, in tempi più recenti, per mezzo di energia alternativa, come la eolica o la solare. Anche le lampadine hanno subito modifiche nel corso degli anni ed ora vengono utilizzati bulbi alogeni di 1000 Watt.
Ma mentre tecnici e studiosi cercavano soluzioni per l’illuminazione dei fari la storia non si fermava. In Italia c’era voglia di unità nazionale e questa è stata raggiunta dopo anni di lotte clandestine, moti popolari, battaglie vinte e perse, eroi che hanno scritto il loro nome nei libri della storia, altri, altrettanto valorosi, il cui nome è svanito nel nulla, non è stato certo indolore, ma finalmente l’unità di’Italia è stata proclamata a Torino dal Re Vittorio Emanuele II° il 17 Marzo 1861, con l’esclusione di Roma, che ne diverrà parte e capitale solo dopo la sua conquista nel 1870.
A questo punto è diventato indispensabile provvedere ad una revisione dei fari esistenti, pochi e antichi, se si considera che nel 1861 i fari in Italia erano circa 50, e alla costruzione di nuovi, per illuminare gli 8000 Km. di coste italiane e tutte le zone pericolose per la navigazione, che nel frattempo aveva subito una grande evoluzione. I traffici marittimi si erano intensificati, ormai si navigava per tutti gli Oceani, si stava gradualmente passando dalla vela al vapore, e il faro era diventato un elemento indispensabile per evitare disastri marittimi. Anche se alcuni fari erano già stati fatti costruire nella prima metà del 1800 su iniziativa del Regno Sabaudo nei suoi territori, molti ancora ne dovevano sorgere e occorreva intervenire, e in fretta, ma i problemi erano molti. Prima di tutto bisognava considerare la ripartizione delle spese per la manutenzione dei manufatti, che prima dell’Unità d’Italia erano a carico di ciascuno degli Stati a cui appartenevano, così il 20 Marzo 1865 venne emanata una legge sulle opere pubbliche che comprendeva anche questa voce, e venne deciso che la ripartizione delle spese sarebbe stata a carico dello Stato per quello che riguardava tutti i segnalamenti in alto mare, mentre le spese concernenti i fari nei porti di prima e terza classe sarebbero stati divisi in ugual misura tra lo Stato e gli Enti interessati, mentre quelli nei porti di quarta classe sarebbero state completamente a carico dei Comuni in cui si trovavano. In seguito, Vittorio Emanuele II° istituì nel 1868 la “Reale Commissione dei Porti, Spiagge e Fari”, uno dei primi, importanti passi per la regolamentazione delle segnalazioni luminose esistenti sulle nostre coste. Nel 1873 venne realizzato dal Ministero dei Lavori Pubblici l’”Album dei Fari”, la prima pubblicazione che comprendeva la planimetria dei fari, costruiti o in costruzione, indicando per ognuno il prospetto, la pianta ed alcuna caratteristiche tecniche, come la portata della luce, ed era completato da una carta intitolata “Carta del Regno d’Italia indicante la posizione geografica e portata massima della luce dei fari”. E’ del 1876 il primo elenco completo dei fari italiani, pubblicato dall’’Ufficio Centrale Idrografico della Regia Marina, con sede a Genova, che richiese anche al Ministero dei Lavori Pubblici di poter istituire un Ufficio Tecnico a cui affidare la direzione generale di tutto il “Servizio fari e segnalamenti marittimi” in Italia. Questa proposta non ebbe seguito, comunque ci fu una lunga serie di “Commissioni” ed “Enti” preposti allo studio della situazione fari, finché il problema arrivò, nel 1879, al Parlamento. Venne istituita un’altra commissione, e poi altre ancora, ma solo nel 1885 fu varata la prima legge sui Fari, la N° 3095 del 2 Aprile, che stabiliva un “Programma organico dei Fari nazionali” che fu affidato al Ministero dei Lavori Pubblici. Ma nel frattempo le cose si erano mosse e i primi fari erano già stati costruiti. Anzi, tra i fari che l’Italia aveva “ereditato”, alcuni dei quali, come abbiamo già visto, molto antichi e bisognosi di restauri, ce n’era uno che era stato appena costruito per volontà del Regno Borbonico, quello di San Vito Lo Capo, vicino a Trapani in Sicilia un grandioso faro la cui costruzione era iniziata nel 1854 e che fu acceso la prima volta il 1° Agosto 1859. La torre cilindrica alta 43 metri sul livello del mare, poggiava su un caseggiato ad un piano destinato ad alloggiare i guardiani del faro, il tutto dipinto di bianco, e la lanterna montava lenti Fresnel, costruite in Francia, con una portata di 18 miglia. Nel 1860 la Sicilia scelse per plebiscito l’annessione al Regno d’Italia ed il nuovissimo faro Borbonico diventò anch’esso italiano poco più di un anno dopo la sua inaugurazione. Bisogna dire che i Borboni non erano insensibili al problema fari, infatti il 27 Settembre 1848 era già stato emesso un “Regolamento del Servizio dei Fari presentato dalla Commissione dei Fari e Fanali, approvato da S.M. il Re (di Napoli), colle aggiunzioni ordinate con reale rescritto de’ 15 Novembre 1856”, il quale contemplava tutte le norme per la costruzione, la manutenzione e la conduzione dei fari, comprendendo anche le mansioni dei guardiani e gli orari di accensione e spegnimento della lanterna. E’ interessante notare come alcune delle mansioni dei faristi elencate in questo antico Regolamento siano valide ancora oggi.
Nel 1865 un professore di nautica, il Cav. Luigi Lamberti, aveva pubblicato un volume intitolato “Descrizione generale dei FARI E FANALI e delle principali osservazioni esistenti sul litorale marittimo del globo, ad uso dei naviganti” nel quale dedicava molte pagine ai fari italiani, oltre a quelli di tutto il mondo, descrivendo per ognuno le coordinate geografiche, le caratteristiche della luce, la condizione, e indicando anche quelli che erano stati progettati o già in costruzione. Faceva anche un particolare appello perché il faro della Meloria, a quel tempo già approvato, venisse al più presto attivato data la pericolosità di quel tratto di mare. Faceva presente inoltre, con un avviso ai naviganti, a pag. 8, di quanti gradi era variata la bussola in Italia dal 1823, dando consigli su come seguire queste variazioni onde evitare “funestissime conseguenze”. Una cosa interessante da notare è che l’autore raccomandava di tenersi alla larga dagli scogli alla base della Lanterna di Genova. Questo faro, innalzato su uno scoglio in riva al mare, dopo la costruzione dell’aeroporto e l’allargamento del porto, ai giorni nostri è venuto a trovarsi ormai in mezzo ad un piazzale.
Mentre la parte burocratica seguiva il suo iter con leggi ed interpellanze, la costruzione dei fari lungo le coste italiane era già iniziata. Anche se l’”Album dei Fari Italiani” redatto dal Ministero dei Lavori pubblici nel 1873 disegnava le piante ed elencava le tipologie dei fari costruiti e da costruire, a quell’epoca i 50 fari “ereditati” dallo Stato Italiano erano già diventati un centinaio, per diventare circa 1000 ai giorni nostri, tra fari, fanali, mede e boe, sparsi lungo tutte le nostre coste. La tipologia dalla costruzione era piuttosto semplice, tenendo però conto di una certa diversità architettonica che si ispirava a stili precedenti, a seconda della località in cui erano posizionati. La caratteristica basilare del faro era quella di essere una torre, sulla cui sommità veniva situata la lanterna, una struttura circondata da vetri, all’interno della quale si trovava l’apparato di illuminazione, il cui combustibile subirà nel tempo diverse variazioni, fino ad arrivare, ai primi del 1900, all’elettricità. Al di fuori della torre correva un terrazzino che aveva lo scopo di permettere al custode di tenere puliti i vetri dall’esterno. Dentro la torre una scala a chiocciola conduceva alla “camera di servizio”, e da qui una scaletta di ferro introduceva nella stanza della lanterna. Nella camera di servizio si trovava l’apparecchio ad orologeria che, a mezzo di due pesi che scendevano lungo il vuoto della torre, faceva girare l’apparato e che in quei tempi, andava azionato a mano ogni quattro o cinque ore, per tutta la notte. Da qui la necessità che in ogni faro si alternassero almeno due guardiani.
I fari situati all’ingresso dei porti erano solitamente costruiti come una torre, non essendo previsti gli alloggi per i guardiani, il cui stile variava, poteva essere a pianta rotonda o quadrata, ornata da una merlatura sotto la lanterna, o senza alcun ornamento, mentre quelli edificati in zone isolate, che necessitavano della presenza dell’uomo sia per il suo funzionamento che per le piccole opere di riparazione, prevedevano un caseggiato ad uno o più piani per gli alloggi delle famiglie, al di sopra del quale si trovava la torre. Può sembrare che quasi tutti i fari italiani costruiti dopo il 1861, pur variando nello stile e nelle dimensioni, abbiano una tipologia molto simile : una costruzione che può essere quadrata o rettangolare, o a base trapezoidale da una parte e cilindrica dall’altra, come nel caso di quello dell’Isola di Cavoli, un isolotto disabitato che si trova all’ingresso del porto di Cagliari. Questo faro è datato 1858, ed è forse servito come esempio per quelli costruiti dopo l’unità d’Italia. Al centro, o a un lato della casa che fa da base, svettava la torre, la cui altezza poteva variare a seconda dell’altezza a cui era situato il faro. Se il faro era a livello del mare la torre avrebbe dovuto essere molto alta, se si trovava in cima ad un promontorio, la sua torre avrebbe avuto dimensioni più modeste. In tutti i fari però si cercava di combinare il lato estetico della costruzione con la sua funzionalità.
Subito dopo il 1861 iniziò una vasta campagna di costruzione di fari, che sorsero un po’ dappertutto. Uno dei primi fari ad essere costruiti in quello stesso anno è stato quello di Capo Ferro, sulla costa Nord Orientale della Sardegna, su un promontorio a 40 metri sul mare, quasi nel centro di quella che oggi è la turistica Costa Smeralda, ma che ai tempi della costruzione era completamente isolato e l’unico mezzo di trasporto erano gli asini. Il faro è formato da un bianco caseggiato a due piani, al centro del quale svettava la torre, a 66 metri sul livello del mare, sulla cui cima si trovava la lanterna, sormontata da una cupola. Sotto la lanterna un terrazzino in pietra sporgeva verso l’esterno. Tutto l’edificio, come molti altri fari in Sardegna e soprattutto quelli situati in posizione elevata, è avvolto nella gabbia di Faraday, così chiamata dal suo inventore Michael Faraday (1791-1867), che la sperimentò nel 1836, una specie di enorme parafulmine, che evita che la struttura sia colpita dalle saette durante i temporali, e che l’avvolge tutta, dando spesso alla struttura un curioso aspetto a quadretti. Questo sistema sostituì o affiancò gradualmente i parafulmini, non sempre sufficienti ad evitare disastri. Quello di Capo Ferro è ancora uno dei pochi Fari abitati da un guardiano e dalla sua famiglia.
Le costruzioni si susseguivano ad un ritmo abbastanza veloce, nel giro di pochi anni, sempre in Sardegna, vennero costruiti altri fari, quello di Capo Bellavista, lungo la costa orientale dell’isola, vicino ad Arbatax, costruito nel 1866 : un grande caseggiato a due piani a strisce bianche e nere, sormontato da un lato da una bassa torre quadrangolare su cui è posata una grande lanterna, un po’ civettuola, in stile liberty, di costruzione francese, che poggia su un parapetto merlato, l’unico particolare che da a tutta la struttura un aspetto militaresco. L’altezza della torre sul livello del mare è 165 metri e la portata luminosa è di 25 metri. Tra i fari sardi non si può non citare quello di Capo Caccia, situato su un promontorio roccioso a circa 25 Km a Ovest di Alghero, proprio al di sopra delle famose Grotte di Nettuno. La sua collocazione è una delle più suggestive, al di sopra di uno strapiombo che porta l’altezza della torre, alta solo 24 metri, ad un altezza totale sul livello del mare di 186 metri. Questo faro è stato costruito nel 1864, è un caseggiato a due piani tutto bianco, anch’esso avvolto dalla gabbia di Faraday e recentemente
ristrutturato, con una torre laterale che lancia la sua luce sul mare a 24 miglia. Anche questo faro è abitato dal Guardiano con la sua famiglia. Un altro importante faro, sempre in Sardegna, è quello di Capo Sandalo, che si trova sull’isola di San Pietro, il faro più occidentale d’Italia, davanti a lui passa tutto il traffico marittimo da e per lo Stretto di Gibilterra. Anche la tipologia di questo faro e simile ad altri, una casa in pietra a due piani, costruita nel 1864 a prezzo di grandi sacrifici, in quanto si trova su una roccia isolata, quasi una piramide, e le pietre venivano portate via mare, sbarcate ai piedi della roccia, e portate con i muli fino alla cima. Al centro della costruzione svetta la torre alta 30 metri, 138 metri sul livello del mare e lancia la sua luce a 28 miglia ogni notte. Il faro ora è disabitato. Anche lungo la penisola vecchi fari antecedenti l’Unità d’Italia vengono presto affiancati da nuovi fari, da Nord a Sud, e dal Tirreno all’Adriatico, nel giro di pochi anni tutte le coste italiane risplendevano di luce nella notte. Il faro di Capo Mele, situato nella Riviera Ligure di Ponente, è uno di quelli costruiti poco prima dell’Unità d’Italia, nel 1856, ma è già comunque incluso negli elenchi dei fari italiani ed è uno dei primi che si incontrano in Liguria arrivando dalla Francia. E’ una bella palazzina a tre piani, colorata di quel rosso che tanto risalta nelle case della terra ligure, a cui è addossata una torre ottagonale bianca, alta 24 metri, che si eleva sul mare per 94, e la cui luce ha una portata di 24 miglia. Sulla Riviera di Levante, di fronte a La Spezia, si trova l’Isola del Tino, già famosa per il monaco San Venerio, sulla quale, nel 1885, è stata costruita una torre al di sopra di un forte napoleonico, che si eleva per 117 metri sul livello del mare. Al di sopra della torre spicca un’alta lanterna di fabbricazione inglese, un’eccezione rispetto alle altre lanterne italiane costruite quasi tutte in Francia.
Scendendo lungo la costa Tirrenica incontriamo la magica Isola di Capri, sulla quale si trova una dei più suggestivi fari italiani, situato sul lato Sud/Ovest dell’Isola, il faro di Punta Carena, costruito nel 1867, proteso sul mare su uno scoglio che assomiglia appunto alla carena di una nave rovesciata. E’ una bellissima costruzione in tufo di Sorrento, dipinta a colori pastello, un caseggiato a due pianti su cui troneggia la torre poligonale con gli angoli bianchi, alta 25 metri, 73 sul livello del mare, sormontata da una grande lanterna a otto facce, la cui luce raggiunge le 25 miglia. Sull’estremità Sud/Orientale della Sicilia troviamo il faro di Cozzo Spadaro, costruito nel 1864, ha un’architettura particolare, diversa da quella di altri fari. Sopra un edificio ad un solo piano, la torre ottagonale, alta 36 metri poggia su un basamento di forma vagamente cinquecentesca, che da a tutta la costruzione un aspetto imponente. La lanterna si eleva a 83 metri sul livello del mare ed ha una portata di 34 miglia. Al largo della costa occidentale della Sicilia si trova l’Isola di Marettimo, una delle Egadi, e sulla costa Sud dell’Isola, a Punta Libeccio, si erge il faro omonimo, costruito nel 1856, arroccato su uno strapiombo a 24 metri sul mare. E’ un casone bianco, a due piani, interrotto da una striscia nera sulla quale è scritto il nome del faro, sormontato da una torre poligonale, anch’essa bianca con una striscia nera, che lancia un lampo fino a 37 miglia, quasi incrociando la luce del faro di Capo Bono, in Tunisia, che è proprio al di la del mare. Ritornando sulla penisola e risalendola troviamo per primo il faro di Capo Spartivento, nel punto un cui la Calabria più si avvicina all’Africa, una costruzione bianca, a due piani, risalente al 1867, sormontata da una torre quadrata alta 19 metri, che si eleva sul mare per 81, e che lancia una luce non molto potente, visibile solo a 11 miglia. Arriviamo sull’estremo lembo Sud d’Italia ed incontriamo il faro di Santa Maria di Leuca, risalente al 1886, sempre un fabbricato bianco a due piani, come se la fretta di costruire non avesse permesso alla fantasia degli ingegneri ottocenteschi di uscire da un certo schema, ma comunque è ingentilito dalla bellezza del paesaggio che lo circonda e la torre, alta 48 metri che si eleva a 102 metri sul mare, lancia il suo lampo bianco a 34 miglia.
Risalendo per la costa orientale della penisola, lungo le coste dell’Adriatico, fino a Trieste, incontriamo ancora molti fari, anche se inferiori per numero e portata di quelli della costa Tirrenica, e costruiti in tempi più recenti, ma non è possibile soffermarsi su tutti, ogni faro avrebbe la sua storia da raccontare, e con il passare degli anni ormai il Regno d’Italia è riuscito ad illuminare le sue coste. Questo lavoro di consolidamento continuerà nel tempo, considerato che nuovi fari sono stati costruiti in Italia fino al 1965. Ma intanto i fari vanno gestiti, bisogna fare lavori di manutenzione, così vicini al mare le strutture vengono rose dalla salsedine, e questo è compito del Ministero dei Lavori Pubblici, finché nel 1910 appare su un portolano inglese una nota con la quale si avvisano i naviganti di quella nazione che “I fari ed i segnalamenti marittimi lungo le coste del Regno d’Italia non danno affidamento alcuno per cui i naviganti si regolino di conseguenza……….”. Una simile annotazione, scritta dagli inglesi, da sempre considerati abili navigatori, doveva aver creato non poco scompiglio, infatti fu deciso di correre subito ai ripari, e in quello stesso anno vennero emanate due leggi, la N° 2 e la N° 75 con le quali la Regia Marina diventava responsabile di tutti i servizi marittimi e con Regio Decreto 17 Luglio 1910, N° 568 venne stabilito che “Il servizio dei fari e degli altri segnalamenti marittimi, fatta soltanto eccezione per la costruzione e la riparazione straordinaria dei manufatti, passa dal Ministero dei Lavori Pubblici alla dipendenza del Ministero della Marina” che era sicuramente l’Ente più adatto a gestire e segnalazioni marittime e che iniziò un progetto di ammodernamento e di nuove costruzioni, tanto che nel 1916 i fari in Italia erano diventati 512.
Ma non si può parlare di fari senza parlare del Guardiano del faro, questo personaggio che ha tanto colpito l’immaginario collettivo, quest’uomo sospeso tra mare e cielo, padrone di una nave ancorata al terreno, uomo di terra, ma in realtà marinaio, di solito un uomo reso schivo dalla solitudine, ma coraggioso, capace di assistere alla più terribili tempeste, ed alle volte eroe, quando gli capita di salvare dei naufraghi di un vascello che si è schiantato ai piedi del suo faro. I primi fari costruiti dopo l’Unità d’Italia funzionavano ancora con combustibili diversi, alcuni addirittura con olio d’oliva, paraffina, vapori di petrolio, acetilene, fino all’arrivo graduale dell’elettricità ai primi del 1900 e la presenza dell’uomo era indispensabile per il funzionamento della lanterna. Questi primi fari prevedevano almeno tre appartamenti per un guardiano capo, un assistente e una terza persona sottoposta per tutte le altre mansioni. La figura del guardiano era necessaria perché le lanterne dei fari dovevano essere accese e spente a mano e continuamente alimentate, i vetri andavano tenuti puliti, qualunque fosse il combustibile usato, il congegno ad orologeria doveva essere caricato a ore precise per non fermare la rotazione della lanterna, all’interno della quale si trovavano spesso delle tende, che andavano chiuse durante giorno perché il sole non danneggiasse l’apparato lenticolare, e tutto questo richiedeva la presenza di più di un uomo. In quell’epoca era normale che i guardiani portassero con loro le famiglie, anche se in zone isolate e disagiate, così si creava una piccola comunità dove anche le donne avevano le loro mansioni, come ad esempio fare il pane, nel forno di cui molti fari erano dotati, ed essere coraggiose come i loro uomini. Spesso i bambini devono percorrere a piedi dei lunghi tratti per andare a scuola, ma anche questo faceva parte di quella scelta di vita. Il problema maggiore erano gli approvvigionamenti, e allora ecco crescere vicino ai fari dei piccoli orti, si vedevano galline razzolare, una gabbia con qualche coniglio, e gli uomini, nei momenti liberi, si dedicavano alla pesca per variare la tavola. Nei fari su isolotti in mezzo al mare, dove poteva succedere che a causa delle condizioni atmosferiche i rifornimenti tardassero per giorni, la situazione poteva diventare tragica, e uomini, donne e bambini dovevano sopportare i crampi della fame o ingegnarsi, magari cacciando gabbiani, come si racconta sia veramente successo sull’Isola di Cavoli negli anni ’30 del 1900. Le lanterne sono state quasi tutte automatizzate e anche la figura del guardiano sta gradualmente sparendo, l’unico che ancora poteva prendersi cura del faro, ripararlo, tenerlo in piedi. Per alcuni guardiani moderni ancora in servizio è un punto d’orgoglio mostrare le scale a chiocciola della torre ben pulite, gli ottoni lucidi, i vetri della lanterna luccicanti, l’apparecchiatura ad orologeria, ormai inservibile, ma sempre al suo posto, tenuta in ordine come se da un momento all’altro la manovella dovesse essere azionata per far girare tutto l’apparato illuminante.
Si dice che i fari non siano più necessari, che sofisticate attrezzature elettroniche e satellitari possono guidare le navi nel buio più assolto, ma forse non è vero, il faro continua ad essere una presenza rassicurante, un amico del navigante, quando lo vede brillare. Il faro non è solo uno strumento dotato di una segnalazione ottica luminosa situata in mezzo al mare per indicare un pericolo, è un guardiano della notte, è una sentinella del mare, il suo fascio di luce dice alla nave che passa entro la sua portata “Stai attento, vira e destra, o a sinistra, qui c’è un pericolo serio, gira alla larga”. Molti si augurano di vederli funzionare per molti anni ancora.
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